Un anno senza prendere l'aereo, un viaggio avventuroso per l'Asia, dal mondo occulto degli indovini, al suicidio di un continente ammaliato da un modello altrui, ossessionato dallo sviluppo.
Mancavano pochi giorni alla fine del 1992, la guerra fredda era finita bene, il Pil mondiale cresceva, la scienza svelava, la tecnica applicava per l’industria, l’Occidente si specchiava con ottimismo. Intanto, Tiziano Terzani, corrispondente di guerra, giornalista internazionale serio ed affermato, navigava sul Mekong. Con tranquillità imperturbabile il serpente fangoso stendeva le sue spire tra il Laos e la Thailandia. Silenzio, calma e lumini ad olio, sospesi sulla riva laotiana, innanzi al futuro tailandese con l’elettricità, i motori e la musica altra; “su quale sponda la felicità?“, si domandava Tiziano Terzani. Una domanda sciocca nel 1992.
Tuttavia il giornalista serio non avrebbe sofferto la noia di un cenone in ambasciata, né al club dei corrispondenti. Meglio una frittata di uova di formiche rosse e lo scroscio di una cascata nel verde, sull’altopiano di Bolovens; in mezzo ad una natura strana, macchia più che foresta, dalla quale perfino gli uccelli erano fuggiti, come si era disciolta qualunque memoria umana più antica della Guerra del Vietnam (1955-1975). Non una capanna di contadini, non una pagoda del Buddha era scampata al conflitto. Nessun luogo della Terra era stato bombardato di più.
Fu allora, in uno scenario surreale, che il primo gennaio 1993, l’impresa poetica della quale fantasticava Terzani ebbe inizio. Per un anno, il corrispondente dall’Asia non avrebbe volato;
dopo una vita sensata, all’insegna della ragione, mi permettevo ora una decisione fondata sulla più irrazionale delle considerazioni e mi imponevo così un limite senza senso.
L’occasione di perdere l’aereo Terzani l’aveva incontrata ad Hong Kong nel 1976, quando un’amica cinese, appassionata giocatrice d’azzardo, era riuscita a trascinarlo dal suo indovino di fiducia. La donna contava di scoprire quali sarebbero stati i suoi giorni fortunati – per giocarseli nei casinò di Macao – in un anonimo e fatiscente palazzone, cui il caldo asfissiante vietava di chiudere le porte. Difendevano gli appartamenti, soltanto lucchetti ed inferriate. Traspiravano l’aria, i profumi dell’incenso, il lume rossastro di un altare degli antenati.
L’indovino cinese si adoperò per quella che avrebbe dovuto essere l’unica cliente, poi notò l’accompagnatore: «è lui che mi interessa». Terzani si lasciò guardare, misurare l’avambraccio, toccare la fronte, dichiarò la propria data di nascita:
Circa un anno fa tu stavi per morire di morte violenta e ti salvasti sorridendo […] Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell’anno non volare. Non volare mai.
Molti indovini tentano di avvalorare le previsioni, mirando anzi tutto al passato. Descrivere in maniera plausibile situazioni generiche, il sesso o il numero dei figli senza conoscerli, non costituisce una casualità eccessivamente improbabile, specialmente quando la fantasia del cliente credulone si scatena per rimediare agli errori. Più difficile indovinare, tirando a caso, come in Cambogia, esattamente un anno prima, Terzani si fosse trovato in pericolo, tra le urla dei guerriglieri Khmer Rossi – Cia… Cia… American, American ! – ed innanzi ai loro mitra spianati; col sorriso li aveva persuasi ad attendere l’arrivo di un capo prima di sparare. Nessuno conosceva l’accaduto. Mesi di incubi avevano forse lasciato un segno segreto che soltanto l’indovino poteva scorgere?
Dopo molti anni, lo scampato pericolo si trasformò nell’occasione per rispettare un limite di quota insensato, al quale fu divertente aggiungere il divieto di pernottare negli hotel del turismo di massa ed il proposito di consultare un indovino in ogni luogo visitato; abbracciando forte l’ultima splendida Asia, anch’essa in marcia, se pur nella direzione opposta, alla via sulla quale Terzani si era incamminato, oltre le delusioni moderne del comunismo cinese e del capitalismo in Giappone. Un indovino mi disse (1995) è così la storia leggera di un anno in viaggio, di un fiorentino diffidente ma senza pregiudizi, tra talismani magici, antiche dottrine, indovini; attraverso i paesaggi di un’Asia che per inseguire la modernità occidentale, perdeva sé stessa.
Festeggiato Capodanno, il viaggio di ritorno, dal Laos alla mitica Turtle House di Bangkok, corse in automobile. Dopo decenni in cui, secondo gli antichi colonizzatori francesi, i laotiani avevano indugiato ad ascoltare il riso che cresceva, già piantato dagli operosi vietnamiti, anche il Laos si era arreso allo sviluppo. Rifiutato per anni, da ultimo il governo australiano aveva potuto costruire il bel ponte sul Mekong. Follemente i lao, per vivere a modo loro, avevano rifiutato di lasciarsi attraversare dai dollari, dall’autostrada Pechino-Singapore, dai turisti e dalle merci del porto di Bangkok; retrogradi si ostinavano ancora a chiamare il bel ponte: «ponte dell’Aids». La vecchia capitale Luang Prabang, sarebbe stata circondata dall’autostrada e schiusa da un nuovo grande aeroporto. La civiltà del denaro e dei consumi sarebbe atterrata anche nell’unico paese in cui, perfino i dirigenti comunisti raccomandavano di tener fede alle promesse, votate allo spirito del fiume.
Il Laos, da uno stato d’animo, come una bionda hippie aveva sussurrato a Terzani nel 1972, si sarebbe trasformato in un parco giochi come tanti;
Che brutta invenzione il turismo! Una delle industrie più mefitiche ! Ha ridotto il mondo a un enorme giardino di infanzia, a una Disneyland senza confini. Presto anche nella vecchia e remota capitale reale del Laos sbarcheranno migliaia di questi nuovi invasori, soldati dell’impero dei consumi, e con le loro macchine fotografiche, le loro implacabili videocamere, gratteranno via quell’ultima naturale magia che lì è ancora dovunque.
A Bangkok non c’erano più le tradizionali case palafitte di legno, né si navigava sul capillare sistema di canali, ormai interrati ed origine dello stagno chiuso, nel quale, innanzi ad una delle ultime case vecchie, si era rifugiata l’enorme tartaruga carnivora che aveva ispirato il nome di Turtle House, come Terzani e la moglie Angela avevano ribattezzato la più bella delle loro residenze asiatiche.
La Thailandia aveva appresto bene la lezione, ospitava basi militari americane, non era mai stata comunista, era aperta al turismo, gioiva della sua rigogliosa crescita economica. Bangkok era anzi una città moderna, con i grattacieli, il fervore edilizio, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, un quinto della popolazione senza casa, un sessantesimo malato di Aids, una prostituta ogni trenta donne, continui incidenti stradali mortali, oltre 700 suicidi ogni mese. I pii, gli spiriti dei luoghi, erano infuriati.
Dalla città, con il miracolo economico, se ne era andato via il fascino ma erano rimasti gli indovini. Moltissimi thai portavano indosso tatuaggi fortunati o amuleti. Perfino il capo del governo Chatichai Choonhavan (1929-1998), schieratosi a fianco degli Stati Uniti in occasione della prima Guerra del Golfo (1990-1991), aveva ritenuto di tranquillizzare la popolazione, preoccupata per il terrorismo islamico, dichiarando alla stampa che non c’era pericolo, lo aveva scoperto il suo astrologo.
Fu la moglie dell’amico filosofo Sulak Sivaraksa, buddhista, mancato Nobel per la pace e spesso incarcerato, perché critico nei confronti di una classe dirigente colpevolmente dimentica della tradizione, a consigliare un bravo indovino.
Terzani ingaggiò una interprete che non lo conoscesse e la attese presso un albergo nel quale non alloggiava. Anche stavolta l’indovino era cinese, cieco, volle conoscere soltanto l’ora e la data di nascita. Le prime divinazioni riguardarono il passato di un uomo, generoso, dal carattere difficile e dalla mente irrequieta, un quadro che avrebbe potuto esser vero per chiunque; il cieco si arrischiò quindi a tratteggiare una salute precaria negli anni dell’infanzia (vero), trascorsi presso una famiglia che non sarebbe stata quella naturale (falso), un periodo difficoltoso tra 24 e 29 (vero), la laurea in ingegneria (falso). Terzani iniziò presto a distrarsi, l’indovino, forse percependo il calo di attenzione, passò alle cattive nuove. Con simili stelle non c’era da arricchirsi; una brutta notizia se il suo cliente fosse stato cinese. Mai ricco, eppure famoso; in quale modo? «Scrivendo!».
Presentimento talmente verosimile da suscitare la suggestione di avere comunicato mentalmente la risposta; esperienza per altro destinata a ripetersi anche presso altri indovini, apparentemente in grado di anticipare le domande, lasciarsi suggerire le risposte (nessuna lingua in comune), o descrivere le persone senza vederle: si alzò come dovesse toccarla e descrisse fisicamente Saskia come davvero l’avesse davanti, sempre che in qualche forma quell’indiana in trance non ce l’avesse avuta davvero. Intanto, affermò l’indovino cieco, il pericolo aereo era già stato corso e superato nel 1991. Il 1994 sarebbe stato propizio per l’impossibile trasferimento in un nuovo paese, stanti i contratti per Turtle House e con Der Spiegel. Desiderata, l’India aveva ancora molto da attendere.
Sempre a Bangkok, Terzani assistette all’incontro tra i vincitori del Premio Nobel per la Pace ed a seguito del noioso discorso del Dalai Lama, conobbe Gelon Karma Chang Choub, un tempo Stefano Brunori, giornalista fiorentino. Giunti in oriente nello stesso anno (1971), un collega era corso verso l’Asia moderna, il materialismo storico, la Guerra del Vietnam; l’altro aveva scoperto un’Asia antica, mistica e aveva lasciato la moglie per entrare in un monastero tibetano di Katmandu.
Ospite a Turtle House, Chang Choub raccontò del suono fastidioso dei corni, del duro digiuno dopo mezzo giorno, karma, reincarnazione, maestri reincarnati, di un attimo in chiarità, il satori, meta di una vita ma ancora tristemente lontano. Terzani fu contento dei momenti con Chang Choub, anche senza accettare le sue dottrine che avvolte sembravano folli, quanto la reincarnazione in esplosione demografica.
La mattina Chang Choub si metteva nella nostra salà, il piccolo padiglione di legno sullo stagno, raccolto, immobile, a occhi chiusi, a meditare. Da lontano lo osservavo, ma non riuscivo a togliermi di dosso quel senso di infelicità che, tutto sommato, la sua presenza mi trasmetteva. C’era, fra il colore della sua pelle e quello della sua tonaca, una profonda contraddizione.. [a Katmandu] Chang Choub potrebbe sentirsi terribilmente solo, solo come mai, alla fine di una vita di cui avrebbe da chiedersi, come forse già gli capita di fare, se non l’ha spesa perseguendo la meta di altri, dietro un’illusione che non era nemmeno la sua.
Per secoli, gli antenati dei due giornalisti si erano ritirati a La Verana, come san Francesco, o nel monastero di Camaldoli. Vie più consone? Si domandava Terzani.
Terzani lasciò Bangkok in treno, pur senza aerei avrebbe continuato a viaggiare in Asia e a scrivere per Der Spiegel. L’autorevole settimanale tedesco aveva accettato la stravaganza del suo corrispondente come fosse un’opportunità, anziché licenziarlo. E proprio il cammino terrestre permise di visitare Betong, poco prima della frontiera malese. La regione di confine era stata pericolosa spie, soldati, guerriglieri comunisti. Poi con la pace Betong si era riempita di bordelli per i turisti malesi. Guerriglieri arresi facevano da guida tra gli accampamenti abbandonati, prestando vecchie armi e cappelli con la stella rossa per le foto ricordo.
Terzani intendeva scrivere dei cinesi della diaspora, i ku li (forza amara) o coolie che avevano abbandonato un Celeste Impero, otto-novecentesco, fumoso d’oppio, colonizzato, confuciano; ove i ricchi mercanti erano considerati socialmente inferiori ai contadini. Lasciato l’Impero per il Nan Yang (mare del Sud), i coolie avevano sognato la prosperità materiale più che l’armonia di Confucio e trasformato una nera miseria nel primato economico in molti paesi del sud-est asiatico: se un pescatore indonesiano cattura molto pesce, poi può riposare per giorni, mentre un pescatore cinese torna immediatamente verso quel mare, fu spiegato a Terzani.
Alla fine dell’incontro con un coolie malese, professore di storia, Terzani domandò dove potesse trovare un indovino: «Indovini? Li odio». La madre del professore era stata una donna forte, devota alla famiglia, poi un indiano le aveva predetto la morte entro un anno; improvvisamente ella aveva iniziato a tradire il consorte, ad indebitarsi per il gioco, a mancare da casa. Conosciuta la ragione, il marito aveva perdonato ma scaduto l’anno, la donna non era riuscita a mutare condotta, rovinando l’infanzia del professore. Nel mondo degli indovini, ricorrevano anche simili storie.
In Malesia, prima di rassegnarsi alla fine dell’Impero Britannico, gli inglesi avevano disegnato le frontiere in modo che i cinesi, la cui madrepatria era diventata comunista, rimanessero una minoranza. Nella nuova nazione, l’aspirazione a forgiare un’identità comune era durata poco, cinesi i grattaceli, i supermercati, i tassisti; malesi i militari, i poliziotti, i politici. La divisione razziale era andata progressivamente rafforzandosi, ad arginare, secondo i malesi, riscopertisi bumiputra (figli del suolo) se pur secondi agli orang asli della giungla, il materialismo ed il potere economico cinese.
Nel 1981, Mahathir Mohamad era giunto al governo, deciso a dotare i malesi di un’identità forte ed al contempo a garantire loro uno schiacciante predominio demografico, era riuscito a ricondurre il tradizionale Islam malese alle forme di una interpretazione rigida, sconosciuta innanzi. Il velo mediorientale sostituì i tradizionali, sensuali sarong femminili, nonostante la calvizie e le malattie cutanee che esso favoriva con il caldo equatoriale.
Ai primi anni Novanta, il nuovo Islam si era sviluppato e radicalizzato anche troppo per i politici malesi che già temevano il fondamentalismo. Terzani visitò la comunità di Al Arqam, vicino Kuala Lumpur, lì i veli coprivano anche la faccia delle donne, mentre gli uomini raccontavano la vita del fondatore, Ashaari Mohammad (1937-2010), pronunciandone il nome con deferenza.
Dai venti ai quaranta anni, chi sceglieva Al Arqam, doveva vivere nella comunità; poi tornava a lavorare nel mondo, dividendo i guadagni con il gruppo.
Non siamo affatto contro ciò che è moderno.. Siamo solo contro la modernità di tipo occidentale che è esclusivamente materialistica e non spirituale. Siamo per uno sviluppo che non danneggi la natura e non sfrutti altri popoli,
raccontò un ideologo del gruppo. Inoltre Al Arqam aveva propri campi e proprie fabbriche, per dotarsi del necessario secondo un’economia ispirata ai principi dell’Islam, anziché a quelli del profitto.
Al momento dei saluti, questi calmi e sereni hippies totalitari, mussulmani anche oltre l’ora di preghiera, iniziarono a sembrare meno matti che all’arrivo. Al Arqam confermò a Terzani quanto già compreso attraverso l’Asia centrale nel 1991. L’Islam sostituiva il comunismo quale rivolta degli oppressi e si opponeva al materialismo dilagante, se pure agli occhi di un giornalista europeo poteva rimanere eccessivamente velato, antiquato e repressivo.
Al limite della Penisola Malese, l’odorosa Singapore tropicale del 1971 non esisteva più. La prima casa asiatica di Terzani era scomparsa. Nella capitale dei coolie si era passati dai pantaloni di seta ai tailleur, dalla gentilezza indiana ai tic giapponesi, dal caldo all’aria condizionata e agli alberi finti. Gli oppositori non venivano più imprigionati ma «rotti», in una prigione sotterranea, progettata con la consulenza israeliana, e quindi liberati con un nuovo lavoro, sempre per il governo.
Salpare da Singapore non fu rinfrescane, la nave per l’isola di Tanjung Pinang, in Indonesia, era un’astronave, non permetteva di uscire sul ponte, costringendo i viaggiatori a sopportare la solita aria condizionata. I cinesi d’Indonesia o singaporini tuttavia stavano bene in coperta, con lo sguardo immerso dentro qualche schermo; “ognuno aveva un suo «progetto» di sviluppare, di costruire, di cementificare qualcosa“. In Indonesia, i cinesi costituivano un discriminato 2% della popolazione e nonostante i pogrom del passato, controllavano il 70% del commercio, le maggiori industrie e le maggiori banche.
Alcuni indonesiani parevano non preoccuparsene. L’interprete Norodin, orgoglioso della propria stirpe Batak (tribu Karò), raccontò di come secondo le sue tradizioni, l’umanità ebbe origine dalle scimmie che diventate troppe per stare tra i rami, decisero di mandare a terra metà della popolazione. L’autista era fuggito da un villaggio della parte occidentale di Sumatra, lì il regime era matriarcale; una delle ragazze più brutte si era accordata con sua madre per sposarlo. A Sumatra non vi sarebbe stato uno dei felici matrimoni combinati, scoperti da Terzani in Asia, come la promessa tra Michael e Nancy, devoti cattolici del vecchio quartiere portoghese di Malacca, depositari di una saggezza dimenticata ad occidente in nome del culto della libera scelta: ama chi sposi e non sposare chi ami.
Oltre lo Stretto di Malacca invece, l’autista e l’interprete di Terzani erano fedeli islamici ma non avevano studiato all’estero, magari in Arabia Saudita come i malesi. In Indonesia c’era ancora “un mondo fatto di gente varia, non omogeneizzata, di gente che viveva ancora a modo suo, con aspirazioni e preoccupazioni diverse da quella di diventare ricchi“. Naturalmente tali collaboratori conoscevano un bravo dunkun, o bomoh su altre isole. La magia, con una concezione animista dell’Universo, era rimasta spesso una sorta di religione profonda dell’arcipelago.
Il dukun indonesiano di Terzani condusse l’ospite in una stanza completamente buia, lo fece sedere su di una stuoia, attorno alla quale, quando ebbe acceso tre candele, si delinearono cinque specchi rotondi e delle uova. Conclusa una lunga recitazione, della quale Terzani comprese soltanto il proprio nome e quello di Allah, il dukun estrasse una lente di ingrandimento ed esaminò accuratamente gli specchi; quindi certificò che Terzani non aveva il malocchio. Fu il primo indovino a non predire le fortune economiche del suo cliente. La Cina era non era vicina.
A Tanjung Pinang sorgeva anche una missione cattolica. Anni di giornalismo in Asia avevano insegnato a Terzani, come il modo migliore per conoscere una nuova realtà locale, fosse spesso quello rivolgersi ai gesuiti, o in assenza di questi ad un missionario cattolico. Padre Willem era esperto di dukun.
Eppure, appena giunto in Indonesia, la prima reazione del giovane sacerdote era stata quella di irridere la superstizione insulare; scherzosamente aveva sfidato la magia erotica di uno stregone,
«Prova con me! Mandami una bella ragazza!…» I preti più anziani l’avevano rimproverato e messo in guardia. Non bisognava mai sfidare quella gente. La fede -gli dissero- è una grande difesa contro la magia, ma anche la fede ha i suoi alti e bassi e un dukun potente avrebbe potuto sconfiggerla.
Poi, dopo trent’anni lontano dall’Olanda, padre Willem raccontava di aver visto un uomo, lanciare, con la forza del pensiero, un chiodo incandescente contro la casa del rivale, presto avvolta dalle fiamme, di ossa rotte guarite in quattro giorni, applicando intorno al braccio una poltiglia di gallo nero, di montagne sulle quali non si riusciva ad arrivare senza chiedere permesso allo spirito guardiano. Le storie di padre Willem non parevano credibili, eppure egli era un uomo di chiesa e non sembrava affatto pazzo.
Sacerdote e giornalista convennero che un’antica sapienza poteva essere stata smarrita e che forse presto sarebbe andata perduta anche al livello delle pratiche,
«È triste, ma anche la magia sta scomparendo.. La televisione fa vedere il resto del mondo e tutti vogliono diventare come tutti. È triste, ma è così.. E ora assisto a uno strano fenomeno: loro si muovono sempre più verso la mia civiltà e io mi muovo sempre più verso la loro. Questo è diventato per me un vero problema di coscienza», disse padre Willem. «Sono un prete, sono venuto qui a portare la mia fede, ma in qualche modo mi interesso sempre di più alla loro fede, sono affascinato dal loro mondo, il mondo vero, quello che sta sotto il mondo delle apparenze fatto di Islam, di Buddhismo e anche del mio cristianesimo.» Come lo capivo!
Anche senza aereo Terzani non rinunciò, come ogni anno, alle vacanze in Europa. Via terra e via mare, attraverso la Cambogia, il Vietnam, la Cina e la Mongolia, potevano riprendere forma e bellezza i confini, disegnati dalla natura e dai popoli,
ecco di nuovo una frontiera che vedevo, che sentivo fisicamente; di nuovo la gioia di un paese che sentivo di meritarmi per la fatica che facevo nell’avvicinarmi, lentamente, ad uno dei suoi passi.. A una curva alzai gli occhi e la Cina con la sua storia, la sua cultura, la sua grandezza era lì in un’imponente, vecchia fortificazione.. Mi lasciavo dietro un povero, duro, testardo piccolo paese [Vietnam] ed entravo in un maestoso impero, sicuro e pieno di sé.
Niente a che vedere con centinaia di atterraggi, sempre uguali, nel medesimo globalizzato degli aeroporti.
Da Nanning, nell’estremo sud della Cina, i binari giungevano fino in Europa. Come fuori dal tempo, in Mongolia, fu lo scrittore polacco Ferdinand Ossendowski (1876-1945) ad accompagnare Terzani che volle rileggere Bestie Uomini e Dei, nei loghi ove lama e streghe avevano letto il destino del mistico, sanguinario generale zarista Ungern von Sternberg (1886-1921).
Percorsa tutta la Transiberiana, l’anno senza aerei non era finito, rimaneva da raggiungere Londra per l’edizione inglese di Buona notte, signor Lenin. Terzani avvistò le bianche scogliere di Dover, navigando la Manica. Il tunnel sottomarino in costruzione sarebbe stato poco romantico.
Da qualche parte c’è qualcuno, per il quale nessuno ha votato, che spinge perché il mondo giri sempre più alla svelta, perché gli uomini diventino sempre più uguali in nome di una roba chiamata «globalizzazione» di cui pochi conoscono il significato e ancor meno hanno detto di volere,
pensava Terzani innanzi alla brama di scavare sotto il mare, o magari forare le montagne per correre sempre più veloce.
Lasciata l’Inghilterra, Amburgo sorse lentissima, tra l’Elba e il Mare del Nord, solo alle navi mostrava l’anima anseatica. Nella sede di Der Spiegel si avverarono le promesse impossibili di numerosi indovini, il trasferimento in un paese nuovo nel 1994. Una sede da corrispondente si era liberata, l’India.
La Triesete riportò Terzani verso oriente, felicemente accompagnato dalla moglie Angela, da La Spezia a Singapore. La ciurma era tutta italiana, gli ufficiali eleganti e raffinati. Poi, come nei romanzi, evasi marinai, romantici mozzi, nostromi; eppure qualche sindacato aveva ritenuto che fosse più dignitoso tradurli nella neolingua: tutti comuni polivalenti.
Il cuoco napoletano che mai servì due volte lo stesso piatto, si dispiaceva che il telefono gli avesse tolto la possibilità di scrivere a casa e ricevere lettere. Le cabine degli allievi ufficiali erano vuote. Il capitano lamentava che non ci fosse più da saper guardare il mare, neanche per scoprire una secca. L’uomo poteva pure dimenticare la sua conoscenza millenaria, meglio lasciar fare alle macchine.
Tutto il tempo a bordo avevamo la sensazione di assistere a qualcosa che finiva.. Poco dopo aver doppiato il Capo Guardafui, guarda e fuggi, il marconista ricevette un messaggio dei sindacati che invitavano l’equipaggio a far sciopero: la società di Stato, proprietaria della Trieste, era in trattative per venderla. Al suo ritorno la nave sarebbe passata sotto il controllo di qualche multinazionale, che l’avrebbe ribattezzata, l’avrebbe registrata in qualche paese di comodo e avrebbe sostituito gli italianissimi «comuni polivalenti» con marinai asiatici, magari cinesi, pagati meno di 50 dollari al mese. Quello era dunque l’ultimo viaggio di una delle poche navi che battevano ancora bandiera italiana. Seduto a poppa, mi chiedevo quanto ancora potrà durare un mondo così, retto esclusivamente dai criteri incolti, disumani e immorali dell’economia.
Secondo il calendario cinese, l’anno senza aerei sarebbe finito l’otto febbraio 1994. A dicembre, giunse a Bangkok l’invito per un Capodanno gregoriano insolito quanto quello nel Laos. Morto Pablo Escobar (1949-1993), imprigionato Manuel Noriega (1934-2017); Khun Sa era asceso a nuovo re della droga. Tale sovrano invitava Terzani, con il giornalista svedese Bertil Lindner, ammirato dal collega come una sorta di Sven Hedin (1865-1952) reincarnato, a festeggiare il nuovo anno alla sua coorte.
Khun Sa era un personaggio davvero sinistro, il fiume immenso di dolore, morte ed eroina che inondava il mondo, sgorgava allora soprattutto dal suo Paese degli Shan, la minoranza etnica in guerra contro il governo centrale birmano. Il re della droga si atteggiava allora quale Che Guevara degli Shan che sarebbero stati ben contenti di sradicare i papaveri in cambio dell’indipendenza -la guerriglia costa cara- come pare il loro comandante avesse offerto varie volte agli Stati Uniti. I coltivatori avevano poco da guadagnare rispetto alla catena degli intermediari. Lo stesso Terzani ricordava poi come fosse stata proprio la Cia, ad aiutare i nazionalisti cinesi, sconfitti in patria da Mao Zedong, a stabilirsi in Birmania e di lì, a portare avanti la guerriglia anticomunista, finanziandosi con l’oppio; Kun Sa si era schierato al loro fianco, guadagnandosi lo stesso appoggio.
In questo modo Terzani concluse l’anno, duettando al karaoke con il re della droga e visitandone la villetta, l’unica casa in muratura nella sua piccola capitale, Ho Mong.
Ai muri c’erano le foto ricordo di alcuni stranieri: un lord inglese con la moglie, il figlio di un capo della polizia di New York, un ex colonnello americano delle Forze Speciali. «Perché sono qui ?» «Amici», fu la risposta.
Due comode strade collegavano Ho Mong alla Thailandia e la linea telefonica permetteva di chiamare in tutto il mondo. I grandi manager della droga, forse davvero più importanti e rispettabili di Khun Sa, dormivano negli stessi hotel ed usavano le stesse banche di tutti gli altri manager.
In estremo oriente i sevizi segreti mantenevano al loro interno anche esperti astrologi. Anticipare i consigli politici dell’astrologo nemico, poteva rivelarsi vantaggioso per prevedere le scelte di una nazione. A Hong Kong perfino i britannici si votavano alle stelle, per tentare di anticipare la Cina occulta. Mentre, forse, i servizi segreti indiani, sudcoreani o vietnamiti, avrebbero desiderato conoscere l’esatta ora natale del presidente cinese Deng Xiaoping (1904-1997): un segreto di stato.
Khun Sa non temeva il cielo e rivelò tranquillamente le informazioni utili per farsi scrivere l’oroscopo.
A Ho Mong sorgeva una pagoda, gli Shan erano buddisti e l’abate astrologo. Terzani, assieme a Lindner, fu ricevuto l’ultima notte prima della partenza. Il monaco domandò ai giornalisti quando fossero nati, Terzani dichiarò la mattina del ventidue febbraio 1934, il compleanno di Khun Sa. “Tu hai avuto un’infanzia difficile e senza guida. Forse hai perso i genitori quando eri ancora piccolo. La tua è una vita di avventure.. nel tuo cuore ci sono state varie donne e hai avuto molti figli..“, Terzani temette di essere scoperto, la biografia coincideva in maniera spaventosa con quella del re della droga. Neanche l’abate seppe però distinguere il guerrigliero Shan dal trafficante di morte,
Tu hai molti nemici e te ne crei sempre di nuovi. La tua vita è sempre stata in pericolo.. il tuo è uno strano oroscopo, un oroscopo pieno di misteri. Sei qualcuno di cui pochi sanno davvero chi sei, se sei una persona buona o una cattiva.
Il miglior astrologo andò perso, per fare uno scherzo.
Diversi indovini e per primo il monaco fiorentino Chang Choub, avevano consigliato di meditare. Per decenni, Terzani aveva classificato la meditazione come una distrazione dal mondo, lo svago di personaggi scapestrati. Eppure la posizione giusta per concludere un anno come il 1993 doveva essere quella del loto, con un corso nel nord della Thailandia. L’insegnante John Coleman (1930-2012), seguiva il metodo di Sayagyi U Ba Khin (1899-1971), dal quale lui stesso aveva imparato, proprio la tecnica di meditazione che un impressionante indovino birmano aveva consigliato a Terzani.
Con Un indovino mi disse, entravano così nell’opera letteraria di Terzani i temi fondamentali della meditazione, dell’interesse per la spiritualità e la religione, la differenza culturale quale valore imprescindibile; assieme alla condanna netta del primato economico e del modello unico, imposto al mondo con la globalizzazione. Passando dai fronti caldi, ove la strategia geopolitica delle potenze forgiava i grandi eventi, al mondo degli indovini e delle culture dietro agli eventi, il giornalista serio ed affermato dubitò che i colleghi non lo prendessero per matto o che i suoi lettori non lo capissero ma il successo dell’Indovino fu enorme ed immediato.
L’incidente aereo capitò invece a Joachim Holzgen che Der Spiegel aveva inviato in oriente per sostituire Terzani, quando non era possibile rinunciare a volare. Il 20 marzo 1993 a Siem Reap, in Cambogia, un elicottero della missione Onu che trasportava 15 giornalisti, precipitò in fase di atterraggio. Quindici metri di altezza, i serbatoi pieni che inzupparono i passeggeri ma forse la scintilla non era a bordo e non ci furono vittime. Fato o banale coincidenza ? «Al diavolo te e il tuo indovino ! Hai visto ?», aveva esclamato Holzgen, dal suo letto d’ospedale, appena udita la voce di Terzani.
Dopo l’incidente considerare la predizione solamente come un gioco divenne più difficile, non fu però ragione di perdersi nella fumisteria degli indovini. Concluso il corso di meditazione, anche il calendario cinese iniziava ormai a volgere al termine, “mancavano ancora due settimane alla vera fine del 1993 e del mio anno senza aerei, ma io sentii una gran voglia di riaffermare la mia fiorentinità, di riprendere in mano il mio destino, e di sfidare quella proibizione con cui ero vissuto per tredici mesi “: Chiang Mai-Bangkok, Tiziano Terzani riprese il volo.
di Alessio Mariani
fonte: lintellettualedissidente.i
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