28/04/16

Hermann Hesse, Storie di vagabondaggio - Voglia di viaggiare


Ah, la vera voglia di viaggiare non è altro che quella voglia pericolosa di pensare senza timori di sorta, di affrontare di petto il mondo e di voler avere delle risposte da tutte le cose, gli uomini, gli avvenimenti. Una voglia che non può essere placata con progetti e dai libri, che esige sempre di più e costa sempre di più, in cui bisogna mettere il cuore e il sangue. 
Davanti alla mia finestra il dolce, tiepido vento d'occidente fruga nel lago nero, senza nessuno scopo, infuriando nella sua passione e consumandosi, selvaggio, insaziabile. 
Così selvaggia e insaziabile è la vera voglia di viaggiare , lo stimolo di conoscere e di sperimentare cose nuove, che nessuna conoscenza e nessuna esperienza riescono a saziare. Uno stimolo che è più forte di noi e di tutte le catene, che vuole sempre più sacrifici da chi ne è dominato. 
Non ci sono forse uomini che vanno a caccia di denaro, e del favore delle donne e di principi in maniera selvaggia e oltre ogni limite, fino alla rovina? Ecco così andiamo a caccia noi, noi patiti di viaggi, di ciò che si può prendere dalla madre terra, con il desiderio di essere un tutt'uno con lei, possederla e abbandonarsi a lei, in una misura che non si può ottenere, ma solo sognare, desiderare, agognare. 
E forse questa nostra caccia, questa passione non è niente di diverso e di migliore di quella del giocatore, dello speculatore, del dongiovanni, dell'arrivista. 
Ma a questo punto della vita la nostra passione mi sembra migliore e più degna di tante altre. 
Quando la terra ci chiama, quando a noi vagabondi giunge il richiamo del ritorno e per noi irrequieti si delinea il luogo del riposo, allora alla fine non sarà un congedo, una timida resa, ma piuttosto un assaporare, grati e assetati, la più profonda delle esperienze. Siamo curiosi di conoscere il Sudamerica, le insenature inesplorate dei mari del sud, i poli della terra, il segreto dei venti, delle correnti, dei lampi, delle valanghe - ma ancor più infinitamente curiosi siamo di conoscere la morte, l'ultima e più ardita esperienza di questo nostro essere sulla terra. Poiché crediamo di sapere che di tutte le cognizioni ed esperienze, possono essere ben meritate e soddisfacenti solo quelle a cui dedichiamo di buon grado la nostra vita.

26/03/16

Prima che tu metta quella bandiera... il terrorismo-coloniale del Belgio in Congo e quei 10 milioni di morti dimenticati


«Di fronte alla spaventosa ferita causata dal commercio che, nell’interno dell’Africa, fa più di 100 mila vittime all’anno, i cittadini dei paesi civilizzati devono accordarsi per guarirla… per aprire alla civilizzazione la sola parte del globo, in cui essa non è ancora penetrata». Così disse re Leopoldo ii del Belgio davanti ai delegati della Conferenza geografica da lui promossa a Bruxelles nel 1876.


Ma in un’altra occasione non nascose le sue mire imperialiste sul Congo: «La storia insegna che le colonie sono utili…

Diamoci da fare per averne una anche noi… Guardiamo dove ci sono terre non occupate, popoli da civilizzare e guidare allo sviluppo, assicurandoci al tempo stesso nuove fonti di guadagno, impiego per le nostre classi medie, un po’ di azione per il nostro esercito e per tutto il Belgio l’opportunità di provare al mondo che anch’esso è un popolo imperiale, capace di governare e illuminare gli altri». Parole chiare; la storia fu peggiore.
STANLEY: IL BATTISTRADA
Verso la metà del 1800, l’Africa fu portata di nuovo alla ribalta europea dagli esploratori che vi si addentrarono per curiosità scientifica, scopi umanitari e missionari. I loro resoconti rivelarono pure le ingenti risorse naturali di cui era ricco il continente, scatenando tra le potenze europee, grandi e piccole, la corsa all’Africa.


Ne è un esempio il giornalista Henry Morton Stanley che, per conto del New York Herald e del londinese Daily Telegraph, tra il 1874 e 1877, diresse la prima spedizione africana da est a ovest, da Zanzibar all’Atlantico, discendendo tutto il corso del fiume Zaire. Così scrisse sul Daily Telegraph: «Vi posso provare che la potenza che possiederà il Congo potrà assorbire in se stessa il commercio di tutto il suo enorme bacino. Il fiume è e sarà la grande autostrada per i traffici dell’Africa occidentale».


Era proprio quello che cercava re Leopoldo II per realizzare le sue ambizioni coloniali. Per aggirare il governo belga, che non mostrava interesse né aveva risorse economiche e militari per un’avventura imperialista, nel 1876 il sovrano fondò l’Associazione internazionale dell’Africa (poi Associazione internazionale del Congo); nel 1878 prese Stanley al suo servizio e lo inviò nella regione congolese per stipulare contratti commerciali e diplomatici con le popolazioni dislocate nel bacino del fiume Zaire, ribattezzato Congo.


In pochi anni l’agente Stanley firmò oltre 400 trattati di commercio o protettorato con i capi locali; con il sostegno dello schiavista arabo Tippu Tip fondò diversi empori, tra cui Stanleyville (oggi Kisangani) e Léopoldville (Kinshasa) e avviò lo sfruttamento sistematico del paese.


L’esempio di Leopoldo fu imitato dal cancelliere Bismarck, che si precipitò a procurare un posto al sole per la Germania. Ma la comparsa sulla scena di due nuove potenze coloniali, provocò le reazioni della Francia, Gran Bretagna e Portogallo, i cui interessi nella regione risalivano a un periodo molto anteriore.


Per appianare le divergenze, fu convocata la Conferenza dell’Africa Occidentale, meglio conosciuta come Conferenza di Berlino, in cui parteciparono quasi tutti i paesi europei, più Turchia e Stati Uniti. Dal novembre 1884 al febbraio 1885, l’Africa fu spartita in zone di influenza, con confini che resistono a tutt’oggi. Le rivalità tra le varie potenze favorirono le mire di Leopoldo, sostenute dal Bismarck e l’antico regno del Congo fu diviso in tre parti: al Portogallo toccò l’Angola e Cabinda; alla Francia la fetta a nord del fiume Zaire; al monarca belga le terre esplorate da Stanley, cioè tutto il bacino del grande fiume e zone circostanti. Nasceva il Libero stato del Congo che il parlamento belga riconobbe come proprietà «esclusiva» di Leopoldo II, senza gravami sui contribuenti belgi.


Non pago dell’immenso territorio, grande come l’Europa (Russia esclusa), re Leopoldo, con pretesti più o meno «scientifici», organizzò spedizioni per impadronirsi, a nord, delle regioni del Sudan orientale e, a sud, delle province del Kasai e Baluba: quasi 2,5 milioni di chilometri quadrati.
L’ORRORE DEL CAUCCIÙ
NEL REGNO DI LEOPOLDO

«Nella maggioranza dei casi, l’indigeno deve compiere ogni due settimane un viaggio di un giorno o anche più per raggiungere nella foresta un luogo con una quantità sufficiente di alberi della gomma. Qui conduce una misera esistenza.


Deve costruirsi un riparo temporaneo che non può sostituire la sua capanna; non ha il suo cibo abituale, è esposto alle intemperie del clima tropicale e agli attacchi di bestie feroci. Deve poi portare il prodotto raccolto all’agenzia dell’amministrazione (o della compagnia); solo allora può tornare al suo villaggio, dove rimane appena due o tre giorni, prima che gli venga assegnato un nuovo compito. Di conseguenza la maggior parte del suo tempo è occupata nella raccolta del caucciù». Così si legge nella relazione della commissione d’inchiesta del 1906.


Ogni villaggio doveva consegnare all’amministrazione 5 pecore o maiali, o 50 galline, 125 carichi di manioca, 60 kg di caucciù, 15 di granturco o arachidi e 15 di patate dolci. L’intero villaggio doveva lavorare un giorno su quattro alle opere pubbliche.L’adempimento degli obblighi veniva assicurato da guardie africane reclutate in altre regioni, o da agenti prezzolati dello stesso villaggio. Con l’incoraggiamento dell’amministrazione, guardie e agenti perpetravano atti di inaudita ferocia: portavano via donne e beni; al minimo segno di resistenza mutilavano i malcapitati o li uccidevano.Spesso le compagnie organizzavano contro i villaggi spedizioni punitive nel corso delle quali – secondo il rapporto della commissione – uomini, donne e bambini venivano uccisi senza pietà. Con tali metodi le compagnie concessionarie e lo stesso Leopoldo intascarono decine di milioni.Con le rendite provenienti dal Congo, Leopoldo assicurò a ogni membro della numerosa famiglia reale un reddito annuo fra i 75 mila e i 150 mila franchi; acquistò in Belgio e in Francia vaste proprietà terriere per un valore di 30 milioni di franchi… Effettuò spese enormi per corrompere la stampa, creando un apposito ufficio che mascherasse i suoi crimini.


Il Libero stato del Congo non fu mai né libero né uno stato, ma un privato dominio che il monarca gestì senza alcun controllo, neppure da parte del governo belga.


Tutta la terra non coltivata fu dichiarata proprietà dello stato (cioè del re), che aveva il monopolio assoluto sulle sue risorse di valore immediato (avorio e caucciù) e sui minerali del sottosuolo, il cui sfruttamento fu concesso a varie compagnie, con accordi di affitto per 99 anni.


La scoperta del processo di vulcanizzazione della gomma e il suo impiego industriale fecero di quella colonia uno dei più grandi serbatoi mondiali di questo prodotto fondamentale per l’industrializzazione dell’Occidente. Ma occorreva mano d’opera per raccoglierlo e trasportarlo fino al mare.


Il problema fu subito risolto: tutti gli africani (ironicamente chiamati «cittadini») furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale: chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: a chi non produceva la quota di caucciù veniva tagliata una mano o un piede; alle donne le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi, presa in ostaggio delle donne.


A fare il lavoro sporco erano circa 2.000 agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del paese: molti di essi erano malfamati in patria e malpagati in Congo. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i «capitani» subivano fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.


In 23 anni di esistenza, nel libero stato del Congo morirono circa 10 milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, in cui perì quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
A ciò si aggiunga la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice.


OLOCAUSTO IGNORATO
Come mai l’opinione pubblica non fermò in tempo tali atrocità? Perché, ancora oggi, esse rimangono quasi sconosciute?


A nessuno viene in mente che i massacri avvenuti in questi anni nella regione dei Grandi Laghi hanno radici negli orrori del colonialismo?


Leopoldo diceva di non essere responsabile davanti a nessuno per ciò che i suoi agenti facevano in Congo. In Belgio, il parlamento e l’opinione pubblica in generale consideravano l’intera impresa imperialistica come un affare sporco del sovrano e non ne volevano sapere. Alle altre potenze coloniali il monarca diceva di guardare in casa propria: agli americani rinfacciava lo sterminio dei pellerossa, ai tedeschi l’eliminazione degli herero in Namibia; agli inglesi gli orrori della guerra anglo-boera; ai francesi gli stessi suoi metodi (lavoro forzato, ostaggi, distruzione di villaggi) praticati nell’Africa Equatoriale.


Quando le notizie delle atrocità commesse in nome di Leopoldo cominciarono a diffondersi attraverso i missionari, si scosse anche l’opinione pubblica, prima quella mondiale, poi anche quella belga.
Il nero americano George Washington Williams, partito per il Congo nel 1890 e constatata l’entità del martirio inflitto ai congolesi, scrisse una lettera a Leopoldo, rinfacciandogli che i servizi pubblici efficenti da lui sbandierati erano un’impostura: non vi erano né scuole né ospedali, ma solo qualche capanna «neppur degna di ospitare un cavallo». 

Un libro sul genocidio dimenticato


I missionari, che erano stati per lungo tempo testimoni impotenti, trovarono un megafono per le loro testimonianze soprattutto in Edmond Morel: scoperti i loschi traffici nascosti dietro il commercio del caucciù, si buttò anima e corpo nella lotta contro i «nuovi negrieri».


Di fronte alla crescente ostilità dell’opinione pubblica e sotto la pressione di Inghilterra, Francia e Germania, nel 1906 Leopoldo II fu costretto a nominare una commissione d’inchiesta per indagare sulla gestione del suo stato e discolparsi dalle accuse. Recatasi sul posto, la commissione fu sconvolta da quanto aveva constatato e rivelò al mondo le atrocità del regime coloniale (vedi riquadro). Leopoldo usò tutti i mezzi per conservare la sua proprietà personale, fino a sborsare ingenti somme per confondere l’opinione pubblica, ma alla fine non gli restò altra scelta che cedere il suo possedimento al Belgio.


Era l’agosto del 1908. Per otto giorni consecutivi, Leopoldo bruciò la maggior parte degli archivi della sua colonia personale, prima di consegnarla ufficialmente al Belgio. «Regalerò ai belgi il mio Congo, ma non avranno diritto a sapere ciò che vi ho fatto» disse. E oltre agli archivi ridotti in cenere, ridusse drasticamente al silenzio i testimoni diretti.
Fu così che una parte importante della storia della dominazione di Leopoldo II sul Congo e di coloro che vi si opposero è «sparita» dalla memoria degli europei, più rapidamente e più completamente del ricordo degli altri stermini di massa che hanno accompagnato la colonizzazione dell’Africa.PATERNALISMO TRIONFANTE
Nel 1908 il parlamento del Belgio votò l’annessione del Congo, denominato Congo Belga. Il governo accettò volentieri il passaggio di proprietà: l’anno prima vi era stato scoperto il primo diamante (vedi riquadro).


Per guarire le ferite del periodo leopoldino, furono ripensati obiettivi e metodi della politica coloniale: fu abolito il lavoro forzato, soppressi i monopoli sui prodotti agricoli, limitata l’espropriazione delle terre appartenenti alle comunità, fu redatto un Codice del lavoro per gli addetti allo sfruttamento delle miniere.


Vennero rinegoziate le vecchie concessioni e varie compagnie ricondotte sotto stretti controlli amministrativi. Ma poiché intere regioni del Congo continuarono a essere dominate dalle grandi imprese finanziarie e minerarie (Unilever, Société Générale du Belgique, Union Minière du Haut Katanga…), i metodi di gestione e sfruttamento non si differenziarono molto da quelli leopoldini.


Dal 1919 in poi, la produzione agricola (olio di palma, caffè, gomma) delle compagnie e degli indigeni, lo sviluppo delle miniere di rame del Katanga e la scoperta dei diamanti assicurarono una bilancia commerciale favorevole alla colonia: ciò permise di attuare miglioramenti sociali in settori come istruzione, sanità, abitazione.


Erano, però, provvedimenti del tutto paternalistici: servivano a formare aiutanti più sani e adeguati nello sfruttamento del paese. Fino al 1950, per esempio, l’istruzione superiore era quasi inesistente: nel 1953 c’era una scuola secondaria ogni 870 scuole elementari.


Al paternalismo si univa un bel pizzico di razzismo. Una legge dell’amministrazione leopoldina del 1898 obbligava bianchi e neri a risiedere in zone diverse della città; solo nel 1926 un’ordinanza stabilì che gli amministratori territoriali potevano concedere eccezioni (forse per maggiore comodità della servitù indigena).


Inoltre, ai congolesi era proibito l’uso di alcolici e di circolare nelle ore notturne (divieto in vigore fino al 1959); non avevano accesso alla partecipazione nel governo generale e nell’amministrazione delle 5 province in cui era divisa la colonia. Solo a livello locale i capi tribali potevano esercitare una certa autorità e democrazia.


Soldati e poliziotti non venivano addestrati per accedere a posti di responsabilità (almeno fino al 1957), ma servirono ottimamente come carne da macello nelle due guerre mondiali. Durante la prima guerra mondiale le truppe congolesi combatterono con gli alleati in Africa, strappando ai tedeschi la colonia del Rwanda-Urundi, che la Società delle Nazioni affidò in mandato al Belgio (1919).
VERSO L’INDIPENDENZA
Nel corso della seconda guerra mondiale venne potenziata l’attività industriale ed estrattiva, soprattutto dell’uranio, utilizzato nella fabbricazione delle prime bombe atomiche. Nell’esperienza bellica il Congo acquistò anche una maggiore coscienza del proprio ruolo e la crescita delle istanze anticolonialiste nei paesi asiatici e africani determinò la comparsa di movimenti indipendentisti, che in un primo momento il Belgio tentò di contrastare con la concessione di alcune riforme, in particolare nel settore agricolo e dell’insegnamento.


Di fronte alle crescenti rivendicazioni indipendentiste, nel 1955 Baldovino i lanciò la proposta di una comunità belga-congolese; ma l’opinione pubblica del Belgio continuava a disinteressarsi alla colonia, vista come un affare che non riguardava la gente per bene e che era meglio lasciare alle cure del Ministero delle colonie, delle missioni cattoliche e di poche importanti società di Bruxelles.


Intanto, dalle scuole cattoliche, era uscita una nuova classe, detta degli «evoluti», che si confrontò con la cultura occidentale assorbendola. Nel 1957 fu permessa la formazione di partiti e, alla fine dell’anno, la popolazione nera partecipò per la prima volta all’elezione dei consigli cittadini: i suoi rappresentanti ottennero la maggioranza dei seggi.


Tra i numerosi movimenti tribali, solo il Movimento nazionale congolese (Mnc), guidato da Patrice Lumumba, riuscì a coagulare gli interessi nazionali, contrastando le tendenze secessioniste e inalberando la bandiera dell’indipendenza.


Dopo gli scontri sanguinosi avvenuti a Léopoldville nel 1959, durante una manifestazione nazionalista, re Baldovino cercò di calmare gli animi, promettendo una rapida indipendenza. Ma i coloni bianchi risposero con una nuova ondata di terrore.


Quello stesso anno, il governo belga e i rappresentanti congolesi s’incontrarono a Bruxelles, per stabilire le modalità della concessione dell’indipendenza. Ma tra i leader politici congolesi non vi era identità di vedute: mentre il Mnc di Lumumba sosteneva la costituzione di uno stato unitario, al di là delle differenze etniche e regionali, l’Abako (Associazione dei bakongo) e il Conakat (Confederazione delle associazioni katanghesi) sostenevano la creazione di una confederazione.
Le elezioni del maggio 1960 diedero la maggioranza al Mnc: Lumumba assunse la guida del governo, cedendo la presidenza a Joseph Kasavubu, leader dell’Abako. La Repubblica indipendente del Congo fu proclamata il 30 giugno del 1960.
Note:Leopoldo II del Belgio, ovvero l’orrore in Congo



Fonte: Missioni Consolata, “Le mani sul Congo”, numero monografico ottobre/novembre 2004
(ripreso nel novembre 2015 da operaicontro.it)

26 marzo 2005 – Benedetto Bellesi (direttore di Missioni Consolata)

Fonte: l'antidiplomatico.it  

16/02/16

The Cranberries - Zombie





Un'altra testa cade giù
Un bambino è preso lentamente
E la violenza causa un tale silenzio
Con chi stiamo sbagliando
Ma tu vedi: non sono io
Non è la mia famiglia

Nella tua testa, nella tua testa, stanno combattendo
Con i loro carri armati e le loro bombe
E le loro bombe e le loro pistole
Nella tua testa stanno piangendo
Nella tua testa, nella tua testa
Zombie, zombie, zombie
Cosa c'è nella tua testa, nella tua testa?
Zombie, zombie, zombie

Un'altra madre è stata colpita dalla tragedia:
Un figlio è sopraffatto
Quando la violenza causa silenzio
Stiamo sbagliando per forza
È la stessa vecchia storia fin dal 1916

Nella tua testa, nella tua testa combattono ancora
Con i loro carri armati, e le loro bombe
E le loro bombe e le loro pistole
Nella tua testa, nella tua testa giacciono inerti

03/02/16

Enzo Soresi: le emozioni sono alla base del nostro benessere


Intervista con il professore autore de 'Il cervello anarchico': con la nascita si è influenzati da condizionamenti che portano a essere quello che ognuno è 


Illustre pneumologo, anatomopatologo, oncologo, studioso di neuroscienze, ricercatore scientifico, il prof. Enzo Soresi è autore di diversi libri di successo tra cui "Il cervello anarchico", in cui descrive quanto il cervello umano abbia il potere di attivare o disattivare i meccanismi che generano le malattie o le guarigioni, definite più semplicemente come malattie psicosomatiche. Nel libro viene anche descritto come un atteggiamento positivo nei confronti della malattia sia in grado di aiutare il corpo a guarire anche dove la scienza non sa darsi una spiegazione. A parlare della sua tesi il Prof. Enzo Soresi.

Vuol parlare delle ultime novità in campo biologico riguardanti le neuroscienze?

Il cervello si costruisce nella fase gravidica e la sua costruzione è totalmente interattiva con l'ambiente materno e con l'ambiente esterno alla madre. Alla nascita tutti gli organi si sono definiti ad esclusione del cervello che si costruisce invece in progress, cioè mentre si è al mondo, è per questo motivo che i primi anni di vita sono fondamentali nel costruire le fondamenta del cervello, perché il programma genetico è interattivo con l'ambiente che accoglie il bambino.

Lei ha scritto un libro dal titolo "Il cervello anarchico" tradotto anche in lingua inglese, vuol spiegare il perché a questo titolo?

Perché quando noi veniamo al mondo, se veramente il cervello rimanesse coerente con l'organismo senza interferenza dagli eventi negativi, quindi rimanesse anarchico all'ambiente, sarebbe perfetto biologicamente, e questo porterebbe ad avere quel psicostato di perfezione biologica.

Invece cosa succede?

Con la nascita si è influenzati da tutta una serie di condizionamenti che portano nel bene e nel male a essere quello che ognuno è, con le sue caratteristiche.

Quindi lo scompenso psicosomatico può determinare anche le malattie?

Le emozioni hanno una valenza funzionale rispetto alla malattia e alla salute.

A suo parere cos'è il corpo?

Tutto il corpo è un'entità olistica e tutto parla con tutto, tanto è vero che nel mio libro c'è questa frase di Antifonte in cui si dice che è la mente che dirige il corpo verso la salute, la malattia, come tutto il resto.

Quindi nel suo libro lei dimostra che quello che Antifonte disse in realtà è vero e dimostrabile?

Sì perché ci sono tutti i presupposti biologici per dimostrare che tutto parla con tutto nell'organismo. Il libro è un voler dimostrare cosa è la PNEI, cioè la psiconeuroendocrinoimmunologia.

Vuol spiegare da cosa è costruita la PNEI?

È costruita dal sistema neuroendocrino, cioè è un sistema ubiquitario presente ovunque nell'organismo. Si tratta di cellule che hanno un potenziale di produzione ormonale o di neurotrasmettitori, cioè sostanze che parlano con le membrane cellulari attraverso questi recettori.

Vuol fare un esempio che chiarisca meglio di cosa si tratta?

Un esempio può essere fatto con le endorfine e i recettori degli oppiacei. Questi due sistemi si parlano perché le endorfine sono delle proteine che se ben prodotte dai neuroni vanno a parlare con i recettori di membrana. Si è allegri se il sistema funziona bene, se funziona male si è depressi, se funziona troppo si potrebbe avere un soggetto ipereccitato.

Il libro di cosa tratta?

Il libro sviluppa il tema della PNEI cioè del rapporto fra sistema immunitario, sistema neuroendocrino e strutture emozionali del cervello, cioè strutture limbiche e della comunicazione che avviene fra questi tre sistemi attraverso i neurotrasmettitori. Racconta su queste basi alcuni casi clinici ed affronta il tema dell'effetto placebo e dell'effetto nocebo.

Vuol fare un esempio sull'effetto placebo?

Se a cento persone affette da mal di testa, diamo alla metà una compressa antidolorifica e all'altra metà una pillola di zucchero, a chi ha preso l'analgesico il mal di testa scomparirà al 70% mentre a chi avremo dato la pillola di zucchero al 40%. A conferma che l'aspettativa di un evento terapeutico può essere sufficiente ad innescare una risposta biologica di auto guarigione in una certa quantità di pazienti.

Questo spiega l'importanza della mente nei processi di guarigione?

Poiché il nostro organismo è un'entità olistica l'importanza dell'assetto psichico e del buon controllo delle emozioni è assoluta per il nostro benessere o malessere anche se di fronte ad una malattia è bene seguire la strada della medicina basata sulla evidenza, cioè la medicina scientifica che, come dice il prof. Edoardo Boncinelli va considerata una scienza in progress.

Che cosa suggerisce dal punto di vista preventivo per evitare di ammalarci?

Il controllo delle emozioni è alla base del nostro benessere e in particolare il controllo dello stress causa di tanti danni. Da qualche anno suggerisco ad alcuni miei pazienti di imparare la tecnica della mindfullness o meditazione consapevole che ci mette in condizioni di ridurre i danni da stress. Un altro ottimo presidio per difenderci dalle malattie, è sviluppare un fitness moderato che consiste in trenta minuti di camminata veloce, circa 5 km all'ora almeno quattro volte alla settimana e naturalmente seguire una dieta il più vicino possibile alla dieta mediterranea con l'accorgimento di stare lontano dagli zuccheri e dai cibi raffinati.
Si evince quindi che il cervello è in grado di attivare tutti quei meccanismi che generano in un soggetto la malattia o guarigione. Ciò che viene affermato dal prof. Enzo Soresi, viene dimostrato dai casi in cui la stessa scienza delle volte non è in grado di darsi una spiegazione.

di Desiré Sara Serventi 

fonte: globalist.it