24/02/20

Semi di frutta e verdura liberi da copyright: la battaglia di Alice contro le multinazionali


Sul lago di Como una contadina-attivista ha dichiarato guerra a Monsanto & Co. Facendo crescere nel suo campo varietà vegetali senza brevetti proprietari. Che però, per legge, non può vendere a nessuno

Asso, antico borgo della Vallassina tra i due rami del lago di Como. Le colline scendono fra castagni e cinghiali fino al paese. Alice Pasin ha costruito la sua base sul fronte del bosco. Si è trasferita qui nel 2012. Con il compagno e i figli ha strappato i rovi e fatto spazio a un orto circondato da meli, malva e cespugli di ortiche («sono fondamentali per il terreno»). Alice vi si dedica ogni giorno con una missione politica, più che agraria: riprodurre semi di frutta e verdura liberi da copyright.

I brevetti sono diventati prassi in agricoltura. Negli uffici internazionali sono registrate proprietà per “patate mediamente dense”, broccoletti “dalle cime staccate”, cipolle che fanno piangere meno, cavolfiori “molto bianchi”. Tecnologie della vita: la multinazionale Dupont, ad esempio, ne detiene circa 400 modelli. Monsanto ha 100 esclusive solo alla voce mais. I dossier sono corposi: indicano nel dettaglio i millimetri di uno stelo, gli identikit di resa ottenuta grazie all’ibridazione, naturale o genetica, mostrano la specifica tonalità di viola oggetto d’esercizio economico su una carota. Per quanto ingegnerizzata, infatti, la natura varia. E brevettarla è un mestiere difficile, ma redditizio.

Negli Stati Uniti a partire dagli anni ’80 le aziende possono depositare brevetti commerciali sui semi, anche non Ogm. In Europa l’orientamento è diverso: per vendere una varietà è necessario registrarla, ma questo non vieta ai contadini di farne uso per migliorare la specie. Ma è una libertà a metà. L’Ufficio brevetti europeo infatti accetta dal 2013 domande su semi naturali. Contro questa direzione si è più volte espresso il Parlamento, da ultimo il 19 settembre con una mozione che ribadisce: «Le varietà vegetali e animali, i procedimenti essenzialmente biologici e i loro prodotti, non sono in alcun modo brevettabili». La corsa al controllo però continua. E fra Bruxelles e le multinazionali biotech si stendono campi dove la partita, su alcune produzioni agro-industriali, sembra già decisa.

Di fianco alle arnie, Alice Pasin ha un armadio pieno di scatole. Conservano il frutto della sua militanza agro-politica. Sono 250 varietà più o meno rare: piccoli fagioli occhiuti, scomodi da coltivare ma antichi; mini-cetriolini che si mangiano con la buccia; pomodori gialli molto amati da sua figlia; banane di montagna, cicoria di un contadino che si chiama Ecclesio. Sembra un menu elitista invece è un terreno di conflitto: gli esperti le chiamano coltivazioni orfane perché sono destinate a soccombere al mercato, quindi ad esser dimenticate per mancanza di valore commerciale. La loro cura, riproduzione e vendita, si muove su un confine informale fra il legale, il lecito, il permesso.

Le prime due varietà di grano duro coltivate in Italia, mostrano i dati del Crea (Consiglio per le ricerche in agricoltura del ministero), coprono da sole il 20 per cento della produzione totale. Si chiamano “Iride” e “Saragolla”. Sono proprietà di Syngenta, un colosso sementiero con sede in Svizzera, acquistato alla fine del 2017 da ChemChina per 43 miliardi di dollari. Si tratta della maggiore acquisizione internazionale di sempre da parte di una società cinese. ChemChina è un’azienda di Stato; l’operazione venne presentata come una manovra per garantire la sicurezza alimentare futura della classe media in Cina. Attraverso lo sviluppo e il controllo della fonte primaria: i semi.

Ancora. I primi nove tipi di mais coltivati nelle campagne italiane sono tutti figli della stessa società: marca Pioneer, ovvero Dupont/Corteva, una delle maggiori produttrici globali di semi. Sede nel Delaware, paradiso fiscale degli Stati Uniti, uffici in tutto il mondo. Sono suoi i P1758, P1921, PR31Y43, P1547, P2088, PR32B10, P1114, P1535 piantati e fatti crescere dagli agricoltori italiani. La decima tipologia è “Sy Inove”. ChemChina. Chissà se la Lega rivendicherà ancora il patriottismo della polenta, alla luce di questi dati.

Il 60 per cento delle vendite globali di semi, mostra una mappa aggiornata al 2019 da Philip Howard, università del Michigan, è controllato oggi dalle prime quattro multinazionali dell’agro-chimica: Corteva, ChemChina, Bayer e BASF. Certo mais, soia, grano e girasole sono i settori dove la privatizzazione è più stretta e feroce. In Italia il riso che viene allagato in pianura resta per esempio risultato di piccole o medie aziende. E anche fra gli ortaggi gli interessi sembrano meno chiusi.

Nonostante questo, in Europa le “grandi quattro” detengono i diritti del 72 per cento dei semi di pomodoro coltivati, del 94 per cento delle varietà di cetrioli, del 95 per cento per i tipi di carota. Lo mostra un rapporto Ocse sulla concentrazione nel mercato dei semi pubblicato l’anno scorso, segnalato dal Crea. Il dossier nasce dalla preoccupazione delle agenzie antitrust di fronte alla fusione fra Bayer e Monsanto, completata ufficialmente nel 2018 per 63 miliardi di dollari. Farmaci, diserbanti e radici marciano da allora compatti.

Coltivare semi richiede tempo. Alice Pasin raccoglie le prime due buttate di asparagi, la terza servirà alla riproduzione. Ogni primavera alterna le cipolle, per evitare incroci; aspetta due anni per i nuovi germogli. Perché fiorisca l’insalata bisogna lasciare diventi secca e flebile, uno stelo ruvido. Le zucchine arrivano quasi a esplodere. È un giardino di forme fradicie e gonfie. Sul davanzale di casa ha due bicchierini con dentro semi di pomodoro che stanno fermentando. Serve a renderli più resistenti. «La natura chiede tempo: i semi maturerebbero all’interno del frutto marcio, caduto per terra. La muffa contiene penicillina», racconta: «Per far riprodurre le piante serve cura. Ogni ortaggio o cereale, da oltre 10 mila anni, è risultato di un intervento umano. Molte piante senza questo processo sarebbero già scomparse. Vanno scelti solo i frutti più forti, sviluppati i migliori. La selezione è fondamentale».

La selezione. Per secoli i semi non sono stati una merce: i contadini dipendevano dalla loro capacità di far riprodurre le proprie piante. Compravano germogli solo raramente, scambiavano piantine nei consorzi, miglioravano i risultati adattandosi allo specifico del loro territorio. Da metà del ’900, con lo sviluppo di sementi ibride prima (il paragone classico in campo animale è il mulo) e delle modifiche genetiche ai nuclei poi, i semi sono diventati un mercato sempre più interessante sul piano commerciale. Il business supera, secondo le stime dell’Ocse, i 52 miliardi di dollari. Proteggere brevetti significa proteggere fatturato. Il primo copyright di un seme Ogm è del 1994. Era un pomodoro. Oggi gli Ogm valgono da soli più di 21 miliardi di dollari l’anno. Gli investimenti privati in ricerca e sviluppo sono aumentati così esponenzialmente, portando anche innovazioni positive. Le nuove varietà hanno rendimenti più alti, efficienza nelle risorse idriche e nell’uso del territorio. La privatizzazione però ha portato anche all’accentramento di potere nelle nostre vite: quello che mangiamo è deciso in larga parte da quattro amministratori delegati.

I monopoli, notano le voci critiche riportate nel dossier, minacciano non solo la sostenibilità della produzione (possono controllare prezzo, standard e proposte). Ma costituiscono anche uno squilibrio dei sistemi agricoli: riducono la biodiversità generale, rischiando di rendere fragili intere filiere. La paura è per l’effetto domino di fronte a un nuovo parassita. Non solo. Queste big companies forniscono ai contadini kit di crescita all-inclusive: dal seme al concime, al trattamento anti-parassiti. Sono dosi monouso, visto che le piante cresciute da semi ibridi possono figliare, sì, ma perdono subito le caratteristiche sviluppate in laboratorio.

Per restare sul mercato gli agricoltori devono rifornirsi così ogni volta alla multinazionale. In regime di dipendenza. Sollevati dalle incertezze, certo, ma anche spossessati da scelte e sapere sul loro mestiere. Fra le grandi aziende la parola chiave ora è agricoltura digitale: usare i big data per permettere coltivazioni di precisione. Monsanto ha comprato già nel 2012 “The Climate Corporation”, una startup della Silicon Valley specializzata in previsioni meteo. L’idea è sviluppare algoritmi capaci di indicare pratiche e prodotti dettagliati al singolo appezzamento, incrociando l’attività di milioni di contadini, la meteorologia e i macchinari.

In mezzo all’orto, Alice ha uno spiazzo confuso dove crescono sovrapposte una pianta peruviana, alcuni ortaggi, un albero da frutto. «Il mio compito come attivista non è solo riprodurre semi che servono alla coltivazione. Ma anche studiarli. Perché di molte varietà abbiamo perso ogni conoscenza: quando vanno raccolti i frutti, come conservarli, come cucinarli». Si chiama erosione genetica: gli standard di mercato fanno deperire dna e tradizioni di colture alternative.

Alice Pasin fa parte di “Civiltà contadina”, un’associazione per la difesa della biodiversità agricola; è dentro “Rete semi rurali”, un’organizzazione che sostiene l’arca delle varietà antiche e organizza giornate di scambio/baratto; collabora con realtà come “Zona Franca”, a Varese, dove le farine prodotte da semi liberi vengono usate per i piatti; tiene corsi per istituzioni locali e nazionali; scrive. Si ingegna, perché i semi lei non li può vendere: non sono registrati. Può riprodurli, ma non commerciarli. «Nel nostro network ci sono appassionati che hanno collezioni anche di duemila varietà di pomodori. Ma sono solo collezioni, appunto».

È un settore informale, eppure necessario. Per conservare la diversità agricola sono state costruite nel tempo gigantesche banche dei semi, come i caveaux raffreddati nel ghiaccio alle isole Svalbard, in Norvegia. Un deposito che mantiene migliaia di specie, salutato come un santuario della sopravvivenza e della sovranità alimentare dei paesi che donano le loro specie. Avrà bisogno di 850 milioni di dollari per continuare la propria missione. Le linee guida dell’Istituto nazionale di Economia agraria hanno un’altra prospettiva. Indicano la «possibilità che siano proprio gli agricoltori, nei loro campi, a svolgere questa importante funzione di conservatori della diversità». «Io non sopporto che il nostro mondo sia così di nicchia», commenta Alice risalendo verso casa: «Anche perché c’è un paradosso di fondo: il cibo biologico tanto di moda è frutto di semi non bio».

È vero. «Non c’è disponibilità di semi biologiche, se non per poche specie come l’erba medica o il trifoglio alessandrino», spiega Piergiacomo Bianchi, esperto di certificazione al Crea, dove a metà settembre ha ospitato una giornata di studi sul tema. «Oggi sul nostro database ci sono solo 934 varietà disponibili registrate», racconta Bianchi: «E 33 mila richieste di agricoltori di poter coltivare biologicamente in deroga, non essendoci alternative. Riguardano soprattutto viti, pomodoro, mais, frumento, olive, patate». Un progetto finanziato da Europa e Svizzera mira a finanziare ricerche per avere semi 100 per cento biologici entro il 2037.

Più che alla burocrazia bio e ai mancati fondi, ora Alice deve pensare però al cinghiale che minaccia il suo orto. «Dopo anni di vegetarianesimo, sono diventata amica dei cacciatori della zona. Ho speso duemila euro per mettere la recinzione ma non basta: guarda, un’altra traccia. Mi hanno mangiato tutte le patate...». La coesistenza in natura è un confine mobile.

DI Francesca Sironi, foto di Alberto Gottardo

fonte: espresso.repubblica.it

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