20/11/15

La crisi della Siria spiegata in 10 minuti e 15 mappe




Che cosa accade esattamente in Siria? 
Cosa spinge a far fuggire gli oltre quattro milioni di profughi? 

Analizzando la storia della zona possiamo capirlo molto meglio.


Gli attentati di Parigi riportano di grande attualità questo video virale realizzato all’interno del progetto #whymaps. L’animazione riassume in una manciata di minuti i motivi storici che hanno portato all’attuale crisi siriana e soprattutto gli interessi economici e strategici che ruotano attorno a quei territori affacciati sul Mar Mediterraneo. Un’analisi sicuramente non esaustiva e approfondita, ma che vale sicuramente la pena di seguire fino alla fine per avere una più chiara idea di come si sia arrivati all’attuale crisi. ‪#‎WithSyria‬

18/11/15

Più li bombardiamo più ci colpiscono


Non ci siamo preparati. Decenni di cosiddetto benessere ci hanno infiacchiti, indeboliti, rammolliti, svirilizzati. Le reazioni agli attentati di Parigi sono state isteriche o grottesche. Quando si grida, come ha fatto ripetutamente Hollande, che non si ha paura vuol dire solo che si ha paura.
   
Più continueremo a bombardare l’Isis, con caccia irraggiungibili e droni senza pilota, più l’Isis porterà la guerra in Europa con i mezzi che, da noi, gli sono possibili: gli attentati terroristi e kamikaze. A me pare talmente evidente che l’ho scritto più volte su questo giornale. Non c’è bisogno di uno stratega militare. In uno dei comunicati dopo gli attentati di Parigi l’Isis ha affermato: “La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i nostri bambini, oggi beve dalla stessa coppa”. È una logica, tremenda, ma è una logica. Che riguarda entrambe le parti. Perché noi vediamo, rabbrividendo, i nostri morti, ma non vediamo i loro. Sono almeno quindici anni che siamo in guerra contro i Paesi musulmani, ma non ce ne siamo accorti perché, in Europa, la guerra ci ha toccati in anni ormai lontani e dimenticati (attentati ai treni a Madrid nel 2004 e alla metropolitana a Londra nel 2005) o, più recentemente, per episodi circoscritti e limitati (Charlie Hebdo e supermercato ebraico). Così abbiamo continuato a vivere la nostra vita come se quelle guerre non ci riguardassero.

Gli attentati di venerdì a Parigi sembrano meno mirati di quelli di un anno fa al settimanale francese, invece, in un certo senso, lo sono di più. Colpendo una discoteca, ristorantini alla moda, lo stadio di calcio, cioè i luoghi dei nostri divertimenti, è come se i jihadisti ci dicessero: adesso avete finito di divertirvi mentre noi, a causa vostra, moriamo. E noi dobbiamo accettare lo scandalo, da cui la superiorità tecnologica ci aveva tenuti lontani, che la guerra, la vera guerra, organizzata, sistematica e non episodica, può entrare nei nostri territori. Ma non ci siamo preparati. Decenni di cosiddetto benessere ci hanno infiacchiti, indeboliti, rammolliti, svirilizzati. Le reazioni agli attentati di Parigi sono state isteriche o grottesche. Quando si grida, come ha fatto ripetutamente Hollande, che non si ha paura vuol dire solo che si ha paura. E infatti sono bastati tre petardi per mandare i parigini nel panico. Si combatte il nemico illuminando i monumenti con i colori della Francia o spegnendo le luci della Tour Eiffel o della fontana di Trevi o cantando, come ha fatto Madonna, sciogliendosi in lacrime, Like a Prayer.

Ma questa non è più un’epoca di Beatles, di Rolling Stones e Gianni Morandi. Cerchiamo di salvarci l’anima portando dei fiori sui luoghi degli attentati, commuovendoci della nostra commozione. Cerchiamo almeno di essere più seri e composti. La forza dell’Isis sta nella nostra debolezza. Di là uomini con valori fortissimi, sbagliati che siano, disposti ad andare a morire con la disinvoltura con cui si accende una sigaretta, di qua una società svuotata di ogni valore, a cominciare dal coraggio. L’errore capitale degli occidentali, in particolare degli americani e dei francesi, sempre ammalati di una ridicola gran – deur, è stato quello di andare a mettere il dito, o per essere più precisi i bombardieri e i droni, in una guerra civile, quella fra sunniti e sciiti, iracheni e siriani, che peraltro noi stessi avevamo provocato abbattendo Saddam Hussein, di cui eravamo stati surrettiziamente alleati in funzione anticurda e antiiraniana. E oggi a combattere sul campo non ci andiamo noi ma ci affidiamo proprio ai curdi, del cui massacro siamo stati complici, e ai pasdaran dell’Iran uscito improvvisamente da quell’“As s e del Male” in cui era stato ficcato, non si è mai capito bene perché, per trent’anni. Se i francesi vogliono recuperare un minimo di decenza, invece di continuare a bombardare più o meno alla cieca, mandino i loro soldati sul terreno. Anche se temo che sarebbe una nuova Dien Bien Phu.

Detto questo io penso che in realtà non ci sia solo la religione nella guerra che l’Isis combatte in Medio Oriente. È anche il tentativo di ridefinire confini disegnati soprattutto dagli inglesi fra il 1920 e il 1930. Tentativo più che legittimo in cui, appunto, noi occidentali non avremmo dovuto entrare. Ma c’è anche una lettura più inquietante che si può dare di ciò che sta accadendo in Medio Oriente, nell’Africa subsahariana e in Occidente. Potrebbe essere il tentativo dei poveri dei Paesi poveri del Terzo mondo di muover guerra, con le armi e con le migrazioni, ai Paesi ricchissimi ma squartati all’interno da disuguaglianze spaventose. Se questa ipotesi fosse vera ai poveri del Terzo mondo potrebbero aggiungersi, prima o poi, marxianamente, quelli del Primo mondo. E questo immenso mare di miseria finirebbe per sommergere e decretare la fine di quello che chiamiamo Occidente.

DI MASSIMO FINI - 18 NOVEMBRE 2015

Fonte: Il Fatto Quotidiano.it

17/11/15

Obsolescenza programmata

Vi siete mai chiesti perché certi giocattoli si rompono subito? Perché è così faticoso trovare pezzi di ricambio per un elettrodomestico? Perché il computer che avete in casa dopo pochi mesi è già diventato un pezzo da museo? La risposta è più semplice di quanto, forse, immaginate e si racchiude in appena due parole: obsolescenza programmata. Significa che vi sono prodotti che vengono progettati e costruiti per durare poco, rompersi in fretta ed essere così continuamente sostituiti. Il ragionamento è impietoso ma chiaro: sembra che il sistemo economico-monetario che regola la nostra società stia in piedi solo se si continua a "consumare" senza sosta e per avere la certezza che ciò avvenga occorre creare il "bisogno", la "necessità". Quindi, cosa c'è di più efficace del mettere a disposizione dei consumatori oggetti pensati e realizzati per durare poco, in modo che vengano costantemente ricomprati?

La storia delle cose

Annie Leonard espone in modo diretto ed efficace importanti problematiche all'ordine del giorno, che riguardano l'attuale sistema di produzione delle cose basato sul consumismo più esasperato e le catastrofiche conseguenze che ne derivano a livello planetario.

La civiltà Empatica - Italiano

Studio scientifico sulla natura empatica dell'uomo.
L’empatia è la capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore. Empatia significa "sentire dentro", ad esempio "mettersi nei panni dell'altro", ed è una capacità che fa parte dell’esperienza umana ed animale.


14/11/15

L’Africa all’Ue: smettete di sfruttarci e si fermerà l’emigrazione


Al vertice di Valletta i Paesi africani fanno presente che se le risorse naturali venissero pagate al giusto prezzo e le multinazionali straniere non evadessero il fisco, non ci sarebbe più bisogno di aiuti allo sviluppo.

Bruxelles – L’intera discussione, nemmeno ci sarebbe: se le risorse naturali dell’Africa venissero pagate al giusto prezzo e se le multinazionali che operano nel Paese non evadessero sistematicamente le tasse, molte di quelle persone che oggi tentano di raggiungere l’Europa per fuggire alla povertà, non avrebbero motivo di partire. A criticare apertamente il neo-colonialismo dell’Occidente, inclusa la stessa Europa che si presenta al summit della Valletta tra Ue e Africa nei panni del donatore buono, ci pensa il presidente del Senegal, Macky Sall. “Fino a che l’Africa non vedrà la giusta remunerazione per le sue risorse naturali sarà più o meno dipendente”, avverte durante la conferenza stampa finale del vertice, chiedendo: “È giunta l’ora di restaurare il giusto ordine delle cose”, non solo con prezzi equi per le materie prime africane ma anche spostando “la trasformazione delle risorse sul continente per creare lavoro”. Inoltre l’occidente dovrebbe impegnarsi nella “lotta contro l’evasione fiscale perché è noto che certe multinazionali che operano in Africa trovano sempre attraverso i meccanismi dei contratti che firmano con gli Stati un mezzo di scappare alla fiscalità”, denuncia ancora Sall.
Certo l’Africa non è indenne da colpe: anche “malgoverno e corruzione sono cause di povertà assoluta”, ammette il leader senegalese. Ma “l’evasione fiscale e il trasferimento fraudolento di risorse dall’Africa sono valutati più di 60 miliardi di dollari l’anno” dunque “il solo 10% di questo patrimonio permetterebbe all’Africa di essere indipendente, di fare a meno degli aiuti pubblici allo sviluppo e anche di rimborsare totalmente il suo debito”. Insomma l’Occidente che ora si lamenta dei migranti africani, dovrebbe preoccuparsi di non contribuire all’impoverimento del continente. “Questa battaglia l’abbiamo portata ovunque: al G7, al G20, alle Nazioni Unite e anche qui” al vertice con l’Europa, spiega Sall.
In ogni caso, secondo il rappresentante africano, l’Ue dovrebbe “sdrammatizzare” il suo approccio alla questione migratoria: “Da sempre quando ci sono differenze di sviluppo, le persone migrano verso i Paesi più sviluppati”, sottolinea Sall, ricordando che “fino a uno o due secoli fa era l’Europa che in massa migrava verso l’America”. Si tratta “di un fenomeno naturale, che va sdrammatizzato”, concentrandosi sulla “organizzazione della mobilità regolare e sulla lotta contro i traffici che sfruttano la povertà della popolazione africana per alimentare questo commercio ignobile che è l’immigrazione clandestina”.
Proprio questi sono due dei punti del piano di azione concordato oggi da Paesi africani e Unione europea. Una tabella di marcia ambiziosa che contiene “una serie di azioni molto concrete” da mettere in atto entro la fine del 2016, sottolinea il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Punto centrale è l’accelerazione sui rimpatri e sull’aiuto ai Paesi africani per il reinserimento delle persone rimpatriate. L’Ue si impegna anche ad aprire alcune vie di accesso legale per l’ingresso dei cittadini africani, anche se l’impegno concreto si limita per il momento a borse di studio per gli studenti e a progetti pilota per ricerca o formazione.
Nel corso della due giorni l’Ue ha anche firmato l’atto che lancia ufficialmente il trust fund (fondo fiduciario) per combattere le cause dell’immigrazione irregolare dall’Africa. Un passaggio formale che non aumenta però gli impegni concreti degli Stati, che restano limitatissimi rispetto alle attese. La Commissione europea ha messo sul piatto 1,8 miliardi di finanziamenti e altrettanto si erano impegnati a fare i Paesi Ue che per il momento, però, hanno tirato fuori soltanto 81,3 milioni di euro.
di Letizia Pascale, 12 novenbre 2015
fonte: http://www.eunews.it/

19/05/15

Nakba, la “Catastrofe” rimasta impunita


Al-Nakba (la Catastrofe) è un termine palestinese che ricorda il dramma umano associato con la cacciata avvenuta nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre, al fine di stabilire lo “Stato di occupazione di Israele”. Gli eventi di Al-Nakba includono l’occupazione da parte del regime sionista della maggior parte della terra di Palestina, costringendo più di 900mila palestinesi alla fuga e trasformandoli in rifugiati. Attualmente sono più di 5milioni i rifugiati che vivono nei campi profughi in Cisgiordania, Striscia di Gaza, Giordania, Libano, Siria e Iraq.

Questo tragico evento include anche decine di massacri, saccheggi e atrocità contro i palestinesi, trasformando le principali città palestinesi in città israeliane. Si è cercato di distruggere l’identità palestinese sostituendo i nomi arabi geografici con quelli ebraici, e distruggendo gli autentici punti di riferimento arabi attraverso i loro tentativi di giudaizzazione. Anche se i politici hanno scelto il 15 maggio 1948 per commemorare la Nakba palestinese, questa tragedia ha avuto inizio prima, quando le bande terroristiche hanno attaccato città e villaggi palestinesi al fine di annientarli e diffondere il terrore tra i civili.

L’esercito israeliano ha sempre cercato di nascondere i fatti relativi ai crimini di guerra e ai massacri commessi dalle milizie ebraiche nel 1948, in particolare nel periodo compreso tra maggio 1948 e marzo 1948. Tuttavia, i ricercatori e gli storici affermano che i palestinesi hanno condotto quattro rivolte, tutte finalizzate a prevenire il sorgere dello “Lo Stato di Israele”. I palestinesi hanno offerto centinaia di martiri per la loro causa, ma anche i coloni ebrei hanno subito gravi perdite, rinviando – secondo gli storici – la dichiarazione del loro “Stato” di almeno 20 anni. Sulla base di dati storici sono stati oltre 40mila i palestinesi massacrati nel corso della pulizia etnica attuata dai terroristi sionisti nei 50 massacri documentati.

I villaggi palestinesi distrutti sono stati più di 500, spazzati via con le loro caratteristiche culturali e storiche, l’area dei terreni confiscati inizialmente dall’Ente israeliano è stata di circa 17mila chilometri quadrati (il 63% delle dimensioni dell’area della Palestina). Due anni dopo la Nakba il numero dei rifugiati palestinesi era di circa 957mila, circa il 66% dei palestinesi in quel momento. Il numero di rifugiati palestinesi, secondo le ultime statistiche, ha raggiunto 5.400mila, ciò significa che il 75% del totale dei palestinesi sono rifugiati e sfollati.

Attualmente i palestinesi della “Catastrofe” sono sparsi in 36 campi profughi nella Striscia di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. Le Nazioni Unite hanno creato l’ente di soccorso per i profughi palestinesi nel Vicino Oriente, l’Unrwa, che è responsabile per i profughi palestinesi del 1948. Da 67 anni nessun atto di giustizia è stato intrapreso dalla comunità internazionale a favore del popolo palestinese, lasciando impunito uno dei peggiori crimini di guerra attuati contro una popolazione civile.


di Giovanni Sorbello

Fonte: ilfarosulmondo.it